LA MAREMMA
La Maremma è una vasta regione
geografica compresa in
Toscana e
Lazio che si
affaccia sul
Mar Tirreno.
Il toponimo deriva, per alcuni studiosi, dal
latino maritima, per altri dal
castigliano marismas che significa "palude".
« La
parola maremma nasce con la emme minuscola perché sta a indicare una
qualsiasi regione bassa e paludosa vicina al mare dove i tomboli,
ovvero le dune, ovvero i cordoni di terra litoranea, impediscono ai
corsi d'acqua di sfociare liberamente in mare provocandone il
ristagno. Con il risultato di creare acquitrini, paludi. Non Maremma,
allora, bensì maremma. E siccome la maremma più vasta della penisola,
la più nota, la più micidiale, quella dove la malaria ha imperversato
spietata per secoli interi, era la zona costiera della Toscana
meridionale e del Lazio occidentale, al punto che nella storia della
medicina, e anche della letteratura popolare, la malaria legò il suo
nome, il teatro delle sue rabbrividenti nefandezze, a questo
territorio, la maremma tosco-laziale prese la emme maiuscola. Divenne
Maremma per indicare la regione abitata un tempo dagli Etruschi. Una
regione così grande che Maremma passò ben presto al plurale. Si parlò
di Maremme.»
Dante ne individuava i confini tra
Cecina
(Livorno) e
Tarquinia
(Viterbo), già conosciuta come Corneto:
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« Non
han sì aspri sterpi né sì folti
quelle fiere selvagge che 'n odio hanno
tra Cecina e Corneto i luoghi cólti. » |
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(Dante,
Inferno,
Canto XIII, vv. 7-9)
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Geografia
La Maremma è un
territorio vasto e dai confini difficilmente definibili che si
affaccia sul Mar Tirreno. Convenzionalmente, il territorio maremmano è
suddiviso in tre zone:
La
Maremma Livornese
o
Maremma Pisana,
detta anche Alta Maremma o Maremma
Settentrionale, interessa gran parte della
provincia di Livorno
e alcune aree pedecollinari della
provincia di Pisa,
che si estendono nella parte settentrionale lungo la costa e
l'immediato entroterra tra
Rosignano Marittimo
e
Piombino,
comprendente le prime propaggini collinari della
Val di Cecina,
della
Val di Cornia
e del versante nord-occidentale delle
Colline Metallifere.
Tra le località principali della zona sono da ricordare
Rosignano Marittimo,
Cecina,
Riparbella,
Montescudaio,
Guardistallo,
Casale Marittimo,
Bibbona,
Bolgheri,
Castagneto Carducci,
Campiglia Marittima,
Suvereto,
San Vincenzo,
Populonia
e
Piombino.
L'intero territorio, storicamente chiamato Maremma Pisana,
perché antico dominio della
Repubblica di Pisa,
con il passare degli anni è stato distinto nelle due entità,
coincidenti con i confini amministrativi creati nel 1925 delle
relative province, seppur geograficamente unitario.
La
Maremma Grossetana
(già Maremma Senese),
o Maremma propriamente detta: la parte centrale, nella
provincia di
Grosseto (Toscana),
lungo la costa tra il
golfo di Follonica
e la foce del torrente
Chiarone
che si getta in mare a sud del
promontorio dell'Argentario:
comprende anche la bassa
Valle dell'Ombrone.
Generalmente, il toponimo viene localmente esteso anche ad aree
collinari interne, geograficamente non annoverabili nella Maremma,
come ad esempio le
Colline Metallifere grossetane,
le
Colline dell'Albegna e del Fiora
e l'Area
del Tufo, fino a terminare di
fronte alla vasta area delle alture del
monte Amiata.
Tra le località principali
Grosseto,
Follonica,
Castiglione della Pescaia
e
Orbetello,
oltre a
Massa Marittima
che ha il centro storico nell'area delle
Colline Metallifere
ma buona parte del territorio comunale geograficamente inclusa nella
Maremma. Storicamente chiamata Maremma Senese, perché dominio
della
Repubblica di Siena,
ha assunto l'attuale denominazione a seguito dell'istituzione del
Compartimento granducale di Grosseto (il compartimento
granducale nel
granducato di Toscana
era paragonabile alle attuali province) in epoca
lorenese.
La
Maremma Grossetana si divide da nord a sud in quattro parti.
La piana del fiume
Pecora,
attorno al
golfo di Follonica,
comprendente gran parte del territorio comunale di
Follonica,
l'area pianeggiante dei comuni di
Massa Marittima
e
Gavorrano
e la fascia costiera del comune di
Scarlino,
limitata a sud dal
promontorio di Punta Ala.
La
piana del fiume Ombrone,
che occupa i territori comunali di
Castiglione della Pescaia
e
Grosseto,
la parte meridionale dei comuni di
Gavorrano
e
Roccastrada
e il tratto costiero, pianeggiante e pedecollinare del comune di
Magliano in Toscana.
Si estende tra il
promontorio di Punta Ala
e i
Monti dell'Uccellina.
La piana del fiume
Albegna,
che interessa i comuni di
Orbetello
e la parte pianeggiante dei comuni di
Magliano in Toscana
e
Manciano.
Si estende tra i
Monti dell'Uccellina
e il
promontorio di Ansedonia
e comprende il
promontorio dell'Argentario
e la
Laguna di Orbetello.
La piana del fiume
Fiora,
compresa tra il territorio comunale di
Capalbio
e il
Lazio.
Si estende oltre il
promontorio di Ansedonia
e non presenta soluzioni di continuità con la
Maremma laziale;
comprende il
Lago di Burano.
Maremma laziale,
la parte meridionale, si estende nella parte
occidentale della
provincia di Viterbo
e all'estremità nord-occidentale della
provincia di Roma
(Lazio),
lungo la costa dell'Alto Lazio e nell'immediato retroterra
pianeggiante e pedecollinare della
Tuscia,
tra la foce del torrente
Chiarone
e
Capo Linaro,
promontorio che costituisce l'appendice occidentale dei
Monti della Tolfa
che la dividono dall'Agro
Romano. Tra le località
principali della zona spiccano
Vulci,
Montalto di Castro,
Canino,
Tarquinia,
Tuscania,
Civitavecchia
e
Santa Marinella.
Marittima
o
Maritima
è un termine oggi in disuso che, riproponendo l'etimologia di Maremma,
ne indicava il prolungamento in un territorio geograficamente affine
esteso dal
Tevere
lungo la costa verso sud fino a
Terracina;
un tempo era coperto di foreste e paludi oggi per lo più bonificate (Acilia,
Agro Pontino).
LA STORIA IN BREVE
In
Toscana la
Maremma si estende su circa 5.000 km² di terre, pari a circa 1/4
dell'intera regione, iniziando a sud di
Rosignano Marittimo
per proseguire, oltre il confine regionale, nel
Lazio fino
oltre
Civitavecchia.
Abbandonata in epoca alto-medievale, dal XVIII secolo fu oggetto di
vari tentativi di bonifica e di ripopolamento. Si dovette combattere
contro vaste paludi ed acquitrini costieri, fiumi privi di argini
che allagavano le terre fittamente coperte da boscaglie e macchia
mediterranea, ove su tutto dominava il grande nemico che fu la
malaria che
mieté numerose vittime tra cui lo stesso granduca
Ferdinando III di Lorena.
Al suo spopolamento si aggiungeva la poca fertilità della terra che
permetteva solo una irrisoria produzione di grano e la pastorizia e,
come se non bastasse, nei primi decenni del Settecento la regione fu
periodicamente invasa dalle cavallette. I cronisti del tempo
ricordano che verso le ore 18 del 23 giugno
1711 apparve dalla parte del mare una nube immensa di locuste che
oscurò il sole e ricoprì rapidamente tutta la campagna circostante
di
Piombino.
Negli anni successivi le invasioni di cavallette si estesero anche
alle campagne di
Massa Marittima,
Gavorrano,
Sassetta,
Castagneto Carducci,
distruggendo oltre 70 miglia di terre coltivate. Tali invasioni
continuarono periodicamente fino al 1786. Alle difficoltà naturali
vi erano anche quelle giuridiche che ne ostacolarono lo sviluppo.
Sui terreni di pascolo vi erano le "Bandite per usi" (pascolo
gratuito per i residenti) e "bandite per fida" (con affitto dei
pascoli per la comunità). I restanti pascoli erano di proprietà
granducale (Dogana di pascolo) che potevano essere affittati a
privati o dati "per fida" a forestieri. Poiché tutte le pasture
maremmane erano di competenza della Dogana di
Siena, era
fatto divieto di recintarle anche se possedute da privati. Questo
permetteva agli animali in libertà ed incustoditi di essere decimati
dalle piene dei fiumi (quella dell'Ombrone
del 1749 ne affogò oltre 8.000) o dalle epidemie. Sotto la
Reggenza toscana
si iniziò così a redigere un programma di risanamento del territorio
e riorganizzazione delle proprietà dominate dal
latifondo.
La
Maremma toscana fu tradizionalmente distinta in Maremma Pisana (o
Volterrana) e in Maremma Senese (poi Grossetana).
Maremma Pisana: si estendeva da
Castiglioncello
a sud di
Livorno fino
a
Piombino,
interessando la linea costiera per circa 35 km con una fascia
interna di 5-7 km per un'area di circa 340 km².
Solo la zona collinare era abitata con tutte le
conseguenti confusioni giuridiche di amministrazione e proprietà
(feudi, proprietà ecclesiastiche, comunità). Con i
Lorena si attua
un programma di bonifica, di rete stradale, di frazionamento dei
latifondi e appoderamenti, di coltivazioni e sviluppo demografico. La
prima azione politica del governo in tal senso fu la legge sulla
liberalizzazione del traffico delle granaglie maremmane. Molti privati
colonizzarono le terre:
Carlo Ginori
nei suoi feudi di
Cecina e
Riparbella,
sotto la direzione dell'architetto pistoiese
Romualdo Cilli
iniziò la bonifica delle paludi costiere a nord di Cecina e di
Bibbona
(Cinquantina, Saline, Staio). Cercò di creare a
Cecina un borgo di
pescatori, edificando un vasto palazzo alla foce del fiume con
numerose abitazioni e laboratori per la lavorazione del corallo.
L'esperimento fallì per gli ostacoli che la Reggenza fiorentina gli
pose e nel 1755 fu
praticamente abbandonato tutto il programma. Le bonifiche saranno
riprese e terminate solo a partire dal 1833 quando il
granduca
Leopoldo II di Toscana
promosse le allivellazioni di quelle terre.
Maremma Senese: su questa porzione di terre la
lotta fu più lunga ed estenuante per i numerosi acquitrini e la
malaria che mieteva le vite dei lavoranti. La popolazione residente
che, intorno al 1727-1737, non doveva superare i 19.000 abitanti
abitava in piccoli borghi collinari privi di comodità ed igiene. La
zona acquitrinosa e malarica ricopriva circa km² 715, cioè oltre tre
volte la superficie dell'isola
d'Elba. Vari tentativi di
risanamento saranno fatti con il granduca
Pietro Leopoldo
avvalendosi di valenti ingegneri come il gesuita
Leonardo Ximenes.
Ma il definitivo risanamento si protrasse oltre l'Unità d'Italia
fino agli
anni venti
del XX secolo.
Abitata già in
epoca villanoviana (1000-800 a.C.), dopo la splendida stagione
etrusca che si protrasse dall’VIII al III secolo a.C., la Toscana
centro meridionale tirrenica conobbe le fasi dell’espansione romana.
Zona marginale nel Medioevo, visse tuttavia le lotte tra vari
potentati locali finché passò sotto il dominio di Siena e, dal XVI
sec., entrò a far parte, con modalità d’unione differenziate, del
granducato di Toscana di cui seguì le sorti.
Gli Etruschi
Nel cuore della
Maremma, al centro dell’Etruria, emergono già nel periodo
orientalizzante (VIII-VII secolo a.C.) importanti centri urbani. Il
territorio che si estende a sud dell’Ombrone e comprende i bacini
dell’Osa, dell’Albegna e del Fiora, appartiene in questo periodo alla
sfera di influenza di Vulci e confina a est con il territorio di
Orvieto (Volsinii), a nord-est con quello di Chiusi e a sud con
Tarquinia.
Marsiliana, posta su un alto colle in prossimità di un importante
guado sul fiume Albegna, rappresenta un importante centro agricolo;
Vetulonia, situata in posizione dominante sulle colline settentrionali
del lago Prile, controlla invece un vasto territorio minerario che si
spinge a nord fino al confine con l’area di competenza di un’altra
città etrusca, Populonia, e comprende centri minori il cui sviluppo è
legato all’attività mineraria. Nella media valle del Fiora gli
insediamenti di Poggio Buco, Pitigliano e Sovana sono posti lungo le
principali direttrici di collegamento con l’Etruria interna, ed hanno
probabile funzione di controllo territoriale.
In questa fase le città tendono a dotarsi di infrastrutture portuali:
Roselle e Vetulonia potevano disporre di scali sicuri posti sulle
sponde del Lago Prile, mentre Orbetello e Talamone svolgevano funzioni
di scalo commerciale.
Tra la fine del VI e il V secolo a.C., assistiamo a una ricomposizione
degli assetti territoriali che favorisce la nascita di nuovi
equilibri: Roselle assume una posizione di maggiore importanza,
favorita verosimilmente dal declino di Vetulonia (dovuto alla perdita
dei distretti minerari a favore di Populonia). In tale contesto cessa
l’attività dell’insediamento minerario del lago dell’Accesa.
La sconfitta di Cuma (474 a.C.) ad opera dei Siracusani priva gli
Etruschi della supremazia sul mar Tirreno, che aveva rappresentato per
lungo tempo una fonte di sviluppo economico e culturale di
fondamentale importanza. Profonde trasformazioni interessano la valle
dell’Albegna, che diviene asse privilegiato di penetrazione verso
l’Etruria interna, proiettata in direzione del mar Adriatico quale
riferimento delle nuove rotte commerciali: nasce così nel V secolo il
centro di Doganella, fondato a ridosso del fiume, a circa quattro
chilometri dalla foce.
Il sistema di controllo a monte viene garantito dall’insediamento di
Ghiaccioforte, posto in posizione strategica nel punto in cui la
stretta valle si apre nella pianura, nel tratto compreso fra il colle
di Talamonaccio, le alture della Parrina e l’Argentario.
La Romanizzazione e l’Età Imperiale
A partire dal III
secolo a.C. Roma conquista il territorio etrusco della Maremma (Roselle
è conquistata nel 294 a.C., Vulci nel 280 a.C.). Alla conquista segue
una fase di riorganizzazione territoriale attuata secondo il modello
socio-economico del mondo romano, che comporta la creazione di nuove
colonie, la centuriazione dei campi, per suddividere le aree
coltivabili in lotti da assegnare ai coloni, la costruzione di porti,
strade e ponti per garantire le funzioni di controllo del territorio e
favorirne, nel contempo, lo sviluppo economico.
L’esemplificazione di tale modello è tuttora leggibile nel territorio
di Cosa, che conserva ampie tracce dell’antica centuriazione, con i
suoi insediamenti agricoli sparsi, il suo porto, le sue imponenti
rovine.
Fra il III e il II secolo a.C. è completata la rete stradale
costituita dalla via Aurelia, dalla via Aemilia Scauri e dalla via
Clodia (che collegava Saturnia alla costa), intersecando i precedenti
tracciati etruschi che costituiscono la viabilità secondaria.
Nelle aree collinari interne, i comprensori dei bacini del Fiora e
dell’Albegna sono organizzati intorno alle prefetture di Statonia e
Saturnia.
La conquista romana comporta la distruzione e l’abbandono di molti
centri etruschi (Ghiaccioforte e Doganella) o un processo di decadenza
cui segue, nella prima età imperiale, un nuovo impulso economico e
culturale (come avviene a Roselle).
Nell’anno 89 a.C., con l’estensione della cittadinanza romana ai
vinti, si conclude la romanizzazione dell’Etruria.
Alla fine del I secolo a.C. si afferma, nel panorama agricolo, un
nuovo modello produttivo, incentrato sulla villa e sullo sfruttamento
intensivo e specializzato dei terreni, che cancella il precedente
sistema, fondato sulle piccole proprietà.
Tale fase di prosperità si arresta già a partire dalla fine del II
secolo d.C., introducendo una progressiva e lenta decadenza su tutto
il panorama italiano, non più in grado di sopportare la competizione
con i territori delle province dell’impero.
Il progressivo e lungo declino segnerà fin da questo momento e per
secoli l’immagine del territorio della Maremma.
Dal Medioevo ai Medici e ai Lorena
Lo scenario della Maremma alla fine del
VI secolo vede il territorio ormai cristianizzato, organizzato intorno
alle sedi vescovili di Populonia, Sovana e Roselle. Roselle è ormai
una città decadente, dove sopravvivono soltanto alcuni edifici romani,
adattati alle nuove necessità, e sempre più frequente è l’uso di
seppellire i morti all’interno dell’area urbana, intorno alla
cattedrale, edificata su ciò che resta delle terme del II secolo d.C.
Il resto del territorio manifesta un profondo stato di abbandono; le
comunità, in questo clima di incertezza alla vigilia del conflitto
greco-gotico e della conquista longobarda, si aggregano intorno a
piccoli centri fortificati. La popolazione rurale abbandona
progressivamente la pianura, costituendo una tipologia di insediamento
che porterà allo sviluppo dei villaggi medievali, con la nascita delle
curtes, grandi proprietà fondiarie, capaci di produrre una
ripresa dello sviluppo economico e demografico del territorio.
Alla fina dell’età longobarda e carolingia si affermano nuovi
protagonisti: le famiglie di rango comitale (Aldobrandeschi,
Ardengheschi, Gherardeschi, ecc…) e i vescovi delle diocesi maremmane,
i cui poteri, su uomini e terre, disegnano un nuovo ordinamento.
Nel Duecento il territorio è ancora suddiviso tra le grandi famiglie
comitali, tuttavia l’espansione urbana di centri come Massa Marittima
e Grosseto, unitamente all’azione politica esercitata dall’impero
germanico, dal Papato e dalle città vicine, aprirà una nuova fase di
confronto tra il sistema di potere signorile rurale e il potere
emergente dei comuni.
Alla fine del Duecento il Comune di Siena allarga i propri confini
sulla Maremma, occupando il territorio compreso fra Massa Marittima e
Grosseto, esercitando il proprio ruolo egemonico fino alla conquista
Medicea.
Dall’estinzione della famiglia dei
Medici (1737) fino alla vigilia dell’unificazione d’Italia (1860) la
Maremma, con la sola eccezione dello Stato dei Presidi sotto Il Regno
di Spagna, è parte integrante del Granducato di Toscana, sotto il
governo della famiglia Asburgo Lorena, artefice di quelle profonde ed
illuminate riforme che produrranno, soprattutto con Leopoldo II
(Canapone), la nascita di un vero e proprio stato moderno.
Lo Stato dei Presidi
Lo
Stato dei Presidi si estendeva lungo la costa maremmana e
comprendeva i territori di Orbetello, Port’Ercole, Porto Santo
Stefano, Talamone, Ansedonia e Porto Longone, l’attuale Porto Azzurro
nell’Isola d’Elba.
Fu costituito nel 1557 mediante un trattato che sanciva la spartizione
di quei territori tra Filippo II di Spagna e Cosimo I, duca di
Firenze, dopo la caduta della Repubblica di Siena.
Gli accordi sancirono che la Maremma
venisse di fatto infeudata con tutti i suoi possedimenti nel Ducato di
Firenze, lasciando però un piccolissimo nucleo di territori, Orbetello,
Talamone, Porto Ercole, Porto Santo Stefano, a cui si aggiunse
successivamente Porto Longone, come proprietà diretta della Corona di
Spagna. Questi, con il nome di Presidi di Toscana, furono posti, pur
senza farne parte, sotto il governo del Vicereame di Napoli, anch'esso
dal 1503 possedimento della Corona Aragonese di Spagna.
Nel
corso del Settecento il territorio passò agli Asburgo e poi ai Borbone;
infine nell'Ottocento venne inserito definitivamente nel Granducato di
Toscana.
Le numerose fortezze che costellano il promontorio sono la
testimonianza del ruolo strategico che il Monte Argentario rivestiva
nella difesa dello Stato dei Presidi. Tra le più imponenti si
ricordano Forte Stella a Port’Ercole e la Fortezza di Porto Santo
Stefano.
Per secoli simbolo del potere, oggi sono a disposizione per eventi
culturali, convegni, mostre e congressi internazionali.
I Presidi
di Toscana rivestivano grandissima importanza per la Spagna, sia come
base logistica per i suoi traffici marittimi, militari e commerciali
verso Napoli, sia come sentinella per lo Stato della Chiesa,
considerato politicamente inaffidabile, e per il Ducato di Firenze, la
cui alleanza era in quel momento salda e amichevole, ma come tutto in
politica, esposta alle insidie del tempo.
I
territori dei Presidi di Orbetello, Talamone e Porto Ercole
coincidevano in pratica con quelli delle rispettive Comunità durante
il dominio di Siena. Porto Longone fu creato dal Principato di
Piombino di cui faceva parte.
Presidio di Orbetello.
Si estendeva dalle Saline fino a Montalto di Castro giungendo
nell'entroterra fino alla Marsiliana. Comprendeva l'importante
Orbetello, il tombolo della Giannella, Ansedonia, Capalbio e la
parte di Monte Argentario a nord-ovest della dorsale Terra Rossa-La
Maddalena. Porto Santo Stefano, importante approdo, ma
insignificante centro abitato, si trovava sotto la giurisdizione di
Orbetello.
Presidio di Talamone. Si
estendeva da Collecchio alla Banditella, fino alle Saline,
comprendendo una piccola striscia del Tombolo della Giannella. Pur
essendo un Presidio autonomo, mantenne stretti rapporti amministrativi
con il Presidio di Orbetello, culminati nella fusione, peraltro
temporanea, delle due Comunità.
Presidio di Porto Ercole.
Comprendeva la parte orientale e sud-occidentale di Monte Argentario,
delimitata dalla dorsale Terra Rossa-La Maddalena, il Tombolo della
Feniglia e l'isola di Giannutri. Vi faceva parte anche l'isola di
Giannutri.
Presidio di Porto Longone.
Entrò a far parte dello Stato dei Presidi solo nel 1603 quando Filippo
III, in base ad una clausola del trattato del 1557 che lasciava alla
Spagna la facoltà di fortificare una o più parti dell'Isola d'Elba,
dopo aver occupato il golfo ad est di Capoliveri (1595), vi iniziò la
costruzione della possente Fortezza di San Giacomo. Attorno ad essa
sorse il primo nucleo di quell'abitato che, dalla sua forma, assunse
la denominazione di Lungone poi Longone o Porto Longone. La Corona di
Spagna riunì poi il territorio allo Stato dei Presidi, precedentemente
formato. Dopo l'Unità d'Italia, nel 1863, il Comune assunse la
denominazione ufficiale di Porto Longone che conservò fino al 1947,
anno in cui lo mutò in quella attuale di Porto Azzurro.
Con il
Presidio di Porto Longone e il protettorato armato sul prospiciente
Principato di Piombino, la Spagna si assicurò il controllo dei
traffici marittimi dal nord al sud della penisola attraverso
l'importantissimo tratto di mare da essi delimitato.
I Presidi
non costituivano propriamente uno stato, ma erano un aggregato di
piccolissime entità territoriali fortemente militarizzate, ampiamente
autonome per ciò che riguardava l’amministrazione civile ma
rigidamente governate dal vicerè di Napoli, tramite le figure
istituzionali da lui nominate, nella gestione politica, economica e
soprattutto militare.
I Presidi
non avevano una capitale. Orbetello, grazie alla sua posizione
geografica, caratteristiche militari, popolazione e risorse era
certamente la città più importante, la piccola Porto Ercole con le sue
straordinarie fortificazioni il centro strategico ed avamposto
difensivo fondamentale, l'insignificante Porto Santo Stefano, con la
sua ampia baia riparata dai venti e con alti fondali, un approdo
sicuro ed efficiente.
Il
governo dei Presidi
Gli organi
di governo dei Presidi, erano, alcuni espressione delle comunità
locali, altri dell'autorità che li possedeva (il re di Spagna) o che
per lui li amministrava (il vicere di Napoli) .
Gli
organi di governo civili erano
definiti, e le loro funzioni regolate, dagli Statuti che la Repubblica
di Siena aveva assegnato nel 1414 alle Comunità dei territori
acquisiti, prelevandoli in gran parte da quegli stessi che ne
regolavano la vita cittadina.
Il
Sindaco, quattro Priori Maggiori e quattro Minori, il Camerlengo
(finanze e tesoro), il Podestà (giustizia) e altri Consiglieri
costituivano la Magistratura Civile che ogni Comunità provvedeva ad
eleggere periodicamente.
Gli
organi di governo centrali
erano molteplici, alcuni situati direttamente sul territorio, altri
nel Vicereame di Napoli ed alcuni addirittura nella stessa Spagna. Ad
essi erano assegnati esclusivamente compiti di natura politica,
militare e finanziaria.
Le figure
principali di natura militare presenti sul territorio erano il
Comandante Generale, residente in Orbetello ma con giurisdizione sulle
forze armate di tutti i Presidi, ed i Governatori, uno per ogni
Presidio e con giurisdizione esclusivamente su di esso. Erano nominati
dal Re scegliendoli tra personalità di rango di nazionalità spagnola.
Considerata la natura spiccatamente militare dei Presidi, il
Governatore godeva di ampi poteri sia in tempo di pace che di crisi
militari.
Un'altra
autorità caratteristica era il Vicario Generale dei Presidi. Nominato
dal viceré di Napoli, svolgeva una funzione ispettiva e di controllo
sui territori. Non aveva residenza fissa, anche se in Orbetello, città
sicuramente più importante dei Presidi aveva a disposizione un
palazzo.
Anche se
durante le varie dominazioni che si sono succedute, degli spagnoli ,
degli austriaci e dei Borbone, vi fu sempre l'impegno da parte delle
autorità centrali al massimo rispetto degli Statuti delle Comunità
locali, tra l'altro strenuamente difesi dalle Magistrature civili,
frequenti furono i conflitti tra i rappresentanti delle istituzioni
politiche e militari, più sensibili alle esigenze militari del
territorio e degli interessi dei soldati, e quelle locali viceversa
insofferenti di ogni indebita ingerenza e sensibili alle esigenze
degli abitanti del luogo che li avevano eletti.
La
spiccata connotazione militare dei territori non poteva non essere
causa di malumori e contrasti.
Solo
sull'Argentario, verso la metà del XVII secolo, vi era due fortezze di
grossa mole (la Rocca e Forte Filippo) con un notevole contingente
militare ciascuna, due di mole più piccola (il Forte Stella e la
Fortezza Spagnola a Porto Santo Stefano) con una guarnigione di poche
decine di soldati, ed una quindicina di torri di avvistamento. Senza
considerare altre opere minori, avamposti, batterie, ridotte, fortini,
ecc.
La
presenza di un numero così elevato di soldati, che in occasione di
emergenze militari, poteva aumentare notevolmente, e di strutture
fortificate estese e numerose, creava abbastanza problemi ai non
numerosi abitanti e condizionava inevitabilmente il loro genere di
vita.
Ne risentì
sicuramente lo sviluppo sociale e culturale della popolazione. La
militarizzazione del territorio da una parte ridusse sensibilmente gli
scambi con le popolazioni circostanti e dall'altra, per la presenza di
notevoli contingenti di soldati napoletani e spagnoli di scarse
risorse umane e spessore culturale praticamente nullo, privò i
residenti di un apporto culturale ricco e stimolante.
La
dominazione spagnola terminò nel 1707. Essa fu quella che sicuramente
lasciò tracce più profonde e testimonianze urbanistico-architettoniche
più numerose ed importanti.
Dominazione Austriaca Durò dal
1707 al 1737. Occupati dagli austriaci nel contesto ben più ampio
della guerra di successione spagnola, i Presidi, al pari del Vicereame
di Napoli, furono tolti alla Spagna ed assegnati, con la pace Rastatt
(1714), all'Austria, che provvide a governarli tramite il ricostituito
Vicereame Austriaco di Napoli.
Dominazione Borbonica Durò
dal 1737 al 1800 . A seguito della guerra di successione polacca i
Presidi di Toscana, insieme al Vicereame di Napoli, furono tolti
all'Austria ed assegnati ai Borboni di Spagna, che da quel momento
diventarono sovrani del Regno di Napoli e del Regno di Sicilia. Il
governo dei territori continuò né più né meno con le stesse modalità
dei precedenti proprietari.
Incorporazione nel Regno d'Etruria
Dopo una breve occupazione francese, con
la pace di Aranjuez del 1801 e l'incorporazione nel Regno d'Etruria
voluto da Napoleone Bonaparte, lo Stato dei Presidi cessò formalmente
di esistere.
Il sistema difensivo costiero
L’esigenza di
controllare il tratto di mare antistante i possedimenti rivieraschi fu
avvertita fin da quando le prime imbarcazioni solcarono i mari.
Era necessario conoscere in anticipo chi si avvicinava alla costa:
poteva essere un mercante o un pescatore, ma poteva anche essere una
delle navi corsare turche o barbaresche che, tra il XVI e il XVII
secolo, imperversarono sulle coste maremmane attuando saccheggi e
scorrerie.
Sui promontori, accanto alle piccole torri a pianta circolare che
servivano per l’avvistamento e la segnalazione, si aggiunsero dei veri
e propri fortini a pianta quadrata, molto più robusti e posizionati
con lo spigolo vivo rivolto verso il mare per deviare i colpi
dell’artiglieria nemica; sulla piattaforma superiore di ogni torre
erano posizionati dei cannoni. Anche le foci dei fiumi vennero
protette con delle torri fortificate, più alte e presidiate da
cavalleggeri che pattugliavano la costa e mantenevano le comunicazioni
tra i singoli forti.
Ogni torre era fornita di mezzi di segnalazione ottica (fuoco e fumo)
e acustica (suono di una campanella). Le torri più piccole erano
comandate da sottufficiali chiamati torrieri, le torri più importanti
erano comandate da un castellano; questi svolgevano compiti non solo
militari ma anche di polizia marittima: dovevano riscuotere le gabelle
nei posti di dogana, reprimere il contrabbando, impedire lo sbarco di
uomini e animali che avrebbero potuto causare epidemie.
Torri costiere di Punta Ala: Torre
Balbo, Torre degli Appiani, Torre Hidalgo (Castiglione della Pescaia)
Di
fronte al promontorio di Punta Ala emergono dal mare una serie di
piccoli isolotti, uno dei quali di maggiori dimensioni. Per questa
curiosa formazione l’isola maggiore venne chiamata Troia mentre i
piccoli scogli Porcelli: a questi nomi è collegata la leggenda della
scrofa inseguita dai cani che precipita dalla scogliera in mare
insieme ai suoi porcellini.
Sull’isola di Troia, conosciuta anche con il nome di isola dello
Sparviero, è situata la torre di
Troia Vecchia, o
degli Appiani: realizzata in pietra locale, ha base cilindrica ed è
provvista di piccole aperture, mentre la parte terminale di
coronamento è dotata di archetti e mensole.
La torre faceva parte del sistema difensivo della zona; quando i
corsari turchi l’attaccarono e trucidarono i militari che la
presidiavano, venne abbandonata finché Jacopo VI Appiani, signore
dello Stato di Piombino, cedette questa parte di territorio alla
Signoria dei Medici, che provvide a restaurare la torre.
Nel 1560 Cosimo I dei Medici fece costruire sul promontorio (chiamato
in seguito Punta Ala) un’altra torre, detta di
Troia Nuova, che divenne la prima fortificazione per la
difesa costiera al confine tra il Granducato di Toscana e lo Stato di
Piombino.
Nel 1788-89 Pietro Leopoldo di Lorena rinforzò la torre, a base
quadrata, dotandola di un massiccio basamento a scarpa.
L’edificio deve il suo aspetto attuale alla ristrutturazione ordinata
da Italo Balbo, che nel 1932 acquistò la torre (poi chiamata anche col
nome di Torre Balbo) per risiedervi.
Poco distante sorge infine
Torre Hidalgo, fatta erigere nel 1577da Jacopo VI
Appiani, signore di Piombino. La struttura richiama quella di Troia
Nuova: pianta quadrata, basamento a scarpa, gradinata di accesso in
pietra che termina con un ponte levatoio posto davanti alla porta di
ingresso. Attualmente non visitabile, è però ben visibile dalla zona
del porto di Punta Ala.
Area Forte delle Saline, Il forte (Orbetello)
Sulla sponda sinistra del fiume Albegna, in prossimità della sua foce,
sorge il Forte delle Saline, raggiungibile dalla strada statale
Aurelia, imboccando il bivio per Porto Santo Stefano.
Il nome della struttura deriva dalle saline anticamente presenti nei
dintorni, che costituivano la ricchezza della zona.
La torre risale al periodo della dominazione senese e venne
commissionata al maestro Giovanni Danesi da Como nel 1469, per
proteggere il commercio del sale e delle granaglie che veniva
effettuato tramite lo scalo fluviale dell'Albegna. Successivamente,
quando nel 1588 il forte divenne parte del complesso difensivo dello
Stato Spagnolo dei Presìdi, venne ampliato con un duplice scopo:
potenziare le difese della zona e fungere da dogana per la riscossione
delle tasse sulla pesca e sui trasporti delle merci.
Fanno parte del complesso una cinta muraria a forma di quadrilatero,
un tempo circondata da un fossato con ponte levatoio, una robusta
torre a base quadrata rivolta verso il mare e tre bastioni collocati,
insieme alla torre, a ciascun angolo della cinta. La parte inferiore
delle mura è più ampia e massiccia e ha gli spigoli rinforzati, mentre
la parte superiore è provvista di un camminamento di ronda piuttosto
largo dove veniva collocata anche l'artiglieria.
Visite e rapporti degli ispettori
granducali
Quando lo Stato di
Siena fu annesso al granducato mediceo anche la Maremma ne seguì le
sorti.
Era una terra produttrice di grano ma poco popolata e occorrevano
quindi provvedimenti per lo sviluppo della cerealicoltura. A tal fine
la Maremma fu interessata da frequenti visite amministrative, ad opera
di funzionari fiorentini o senesi itineranti, che costituivano per il
potere granducale uno strumento per conoscere la situazione di queste
terre.
La prima visita fu compiuta tra l’ottobre del 1572 e il novembre del
1573 da Francesco Rasi di Arezzo, auditore fiscale dello stato di
Siena. Dal suo rapporto emerge l’immagine di una Maremma abbastanza
pacificata: il banditismo, che dilagherà negli anni successivi,
mostrava allora il suo volto minaccioso solo in alcune aree
meridionali (come per esempio a Pereta, incuneata tra Scansano e il
feudo di Magliano).
All’epoca della visita di Carlo Corbinelli (provveditore dei
Signori Quattro Conservatori dello Stato di Siena), nel 1615, la
Maremma risultava invece in buona parte spopolata e degradata:
Montenero e Campagnatico, ad esempio, avevano poderi disabitati, case
in rovina e una grave contrazione demografica, che influiva
negativamente anche sullo sviluppo agricolo.
Anche centri di produzione granaria come Manciano e Capalbio
registravano un regresso, mentre il bianco abbagliante delle case di
Sovana era solo apparente e nascondeva interni corrosi dall’ umidità.
Tuttavia risultavano presenti isole di relativa prosperità, come Massa
Marittima (che, pur poco abitata, possedeva una certa abbondanza di
oliveti e vigneti) e Grosseto. Quest’ultima, chiamata “metropoli e
madre di tutta la Maremma” era espressione di un mondo dedito alla
produzione di grano e all’allevamento di bestiame.
La Bonifica
La
bonifica ha interessato la Maremma per lungo tempo e di tracce ne ha
lasciate tante: l’edificio del Consorzio, le tasse, il ponte Mussolini,
le canzoni e i proverbi.
La prima grande bonifica venne realizzata da Ximenes, incaricato da
Pietro Leopoldo Lorena. Egli attuò la bonifica idraulica della pianura
maremmana attraverso una canalizzazione. Partendo dalla credenza
dell’epoca che la malaria fosse generata dalla “cuora”, cioè dalla
materia organica in putrefazione, Ximenes procedette alla regolazione
delle acque del lago attraverso l’escavazione di canali e la
costruzione della Casa Rossa. Secondo le intenzioni del progetto,
queste opere avrebbero dovuto debellare la malaria e salvaguardare il
lago di Castiglione, centro di produzione ittica e comoda via di
trasporto. Ma la bonifica non dette i risultati sperati così Leopoldo
II dal 1828 attuò una missione civilizzatrice, che prevedeva la
costruzione di infrastrutture e servizi essenziali, con l’obiettivo di
risanare il territorio malato e ordinò, su progetto di Fossombroni,
una bonifica per colmata. In questo modo si recuperarono alla
coltivazione oltre 10.000 ettari di terreno, ma alla fine della
dinastia lorenese, nel 1859, la bonifica non poteva considerarsi
ultimata.
Una delle principali cure di
Ferdinando III,
Granduca di Toscana,
era la
bonifica idraulica
e
agraria della
Maremma; spesso vi faceva delle gite per esaminare i lavori e
sollecitarli. Ma il suo zelo e la sua preoccupazione gli dovevano
riuscire fatali. Nel mese di giugno del 1824, tornando
appunto da una delle gite in Maremma, sentì i sintomi d'una febbre che
da quel momento gli insidiò tenacemente la vita.
Ferdinando fu costretto
a mettersi a letto; ed i principali medici furono subito intorno a lui
per contenderlo alla morte, con ogni mezzo migliore che l'arte medica
dell'epoca suggeriva. Furono però tutti sforzi inutili, perché il male
vinse gli uomini della scienza.
A Ferdinando III successe il figlio
Leopoldo II di Toscana
che si volle continuare questa impresa. Intendeva così emulare il
grande avo
Pietro Leopoldo
e suo padre che avevano bonificato la
Val di Chiana
e che già avevano tentato di bonificare la Maremma.
La
bonifica del comprensorio, data la grandissima estensione dell'area,
era un'opera che presentava molte difficoltà tecniche, e richiedeva un
notevole impiego di risorse e conoscenze, per piccoli stati come era
quello del granducato di Toscana.
Il
tratto che si voleva bonificare era la parte che costeggiava il mare,
dallo sbocco della Cecina fino al confine pontificio; i vantaggi di
tale opera sarebbero stati incalcolabili trasformando tutta quella
grossa estensione salmastra in terreni coltivabili.
Il conte
Fossombroni, consigliere dei sovrani, aveva immaginato di bonificare
la Maremma fino dal 1804 e aveva
dichiarato apertamente questa sua intenzione con vari scritti.
Immaginava di costruire canali, strade ed un porto facendosi aiutare
dai cittadini "volenterosi" che volessero investire in questa impresa
esentandoli dalle varie
gabelle alle
porte delle città, dei dazi doganali e dei pedaggi per far diventare
in poco tempo tutta quella regione la ricchezza del regno.
Ad entusiasmare gli animi dei toscani ci fu nel 1780 la
bonifica della tenuta di Bolgheri del conte Cammillo
della Gherardesca.
Tale tenuta era distante circa settanta chilometri da
Pisa e sette
dal mare, sulla sponda sinistra della Cecina. Per liberare quella
vasta tenuta dalle acque stagnanti e limacciose che rendevano
improduttivo il terreno e pestifera l'aria, il matematico padre
Leonardo Ximenes
suggerì al conte
della Gherardesca
l'apertura di quella larga fossa che dal nome del proprietario fu
perciò detta Cammilla, la quale procurò subito il prosciugamento dei
terreni tra
Bolgheri,
Bibbona ed il
mare.
Con tali precedenti, con l'esempio dell'avo, con
gli incitamenti del Fossombroni e con le buone disposizioni del suo
animo, Leopoldo II il 27 aprile 1828 emanò
l'editto per la bonificazione della Maremma a spese dello Stato. I lavori
cominciarono sulla fine del 1829 e vi
furono impiegati circa cinquemila operai arrivati da varie parti della
Toscana, da altri stati italiani e dall'estero, sotto la direzione del
cavalier Alessandro Manetti, che era alla immediate dipendenze del
Granduca.
Il
figlio del conte Cammillo, Guido Della Gherardesca, volle con gli anni
continuare la benefica opera del padre; ma il parere discorde di
ingegneri, di periti e di idraulici, lo costrinse a sospendere
l'esecuzione del suo progetto. Quello che però riusciva impossibile a
tanti uomini di scienza ed ingegneri dell'epoca, riuscì facile ad un
uomo oscuro e modesto che tutt'altro aveva studiato in vita sua che
l'idraulica e l'ingegneria.
Quest'uomo era il "fattore di Bolgheri",
Giuseppe Mazzanti,
che sfornito di teorie ma ricco dei lumi dell'esperienza, con
l'osservazione che egli aveva fatto del naturale movimento delle acque
durante le piogge, chiuse il canale detto Seggio Vecchio e ne scavò un
altro detto Seggio Nuovo, per la qual cosa gli estesissimi campi prima
paludosi divennero fertilissimi.
Il 26 aprile 1830 fu il
giorno fatidico; terminato il lavoro di costruzione del nuovo canale
le acque dell'Ombrone arrivarono velocissime nella palude bonificando
tutto il territorio circostante.
Il
Mazzanti ebbe in riconoscenza dal granduca una medaglia d'oro e il
conte Della Gherardesca fu remunerato adeguatamente del servizio.
Il
problema riemerse dopo la Prima Guerra Mondiale e il governo fascista
investì il prestigio del regime nell'attuazione di ulteriori e
definitivi interventi. L’obiettivo non era più quello di sconfiggere
la malaria, poiché ormai se ne conosceva la causa, ma quello di
recuperare ulteriori appezzamenti di terreno agricolo. La nuova
bonifica mirava non solo alla colmata o al prosciugamento dei terreni,
ma anche alla realizzazione di strade, villaggi rurali, acquedotti,
canali di irrigazione e opere per la sistemazione montana e valliva
dei corsi d'acqua. Tali interventi dovevano inoltre coordinarsi con
interventi di bonifica agraria dei terreni; per armonizzare meglio i
due interventi di bonifica (idraulica e agraria) alcuni proprietari
terrieri della pianura grossetana promossero, nel 1929, la
costituzione del Consorzio di Bonifica, che si incaricò di mettere a
punto un piano generale dei lavori.
Gli ultimi interventi risalgono al 1948 e al 1954.
La Riforma dell’Ente Maremma
La
Riforma Agraria del 1950 venne attivata con lo scopo di sviluppare la
piccola proprietà coltivatrice e lo slogan adottato fu “la terra a
chi lavora la terra.” Con la Riforma furono espropriati migliaia
di ettari delle vaste proprietà latifondistiche, appartenenti a poche
famiglie, che fino a quel momento avevano caratterizzato il
territorio.
L’Ente Maremma preposto alla Riforma suddivise le aree espropriate in
aziende di colonizzazione che a loro volta avevano il compito di
assegnare i poderi alle famiglie coltivatrici. L’ampiezza dei poderi
variava da 8 a 25 ettari a seconda delle possibilità produttive del
terreno tali da consentire all’assegnatario in pochi anni il
raggiungimento dell’autonomia economica e lavorativa. Con questo
sistema i coltivatori diretti si riscattavano lavorando e divenivano
proprietari del terreno.
La Riforma Agraria quindi ha avuto un ruolo importante poiché ha
promosso un cambiamento sociale ed economico della Maremma e ha creato
le basi per una trasformazione delle forme tradizionali di
coltivazione e allevamento.
L’Archivio Storico della Grancia, a Grosseto, è nato come centro di
raccolta, documentazione, conservazione ed elaborazione delle vicende
legate alla Riforma Fondiaria. Consiste in 54.000 documenti, tra cui
planimetrie di appoderamenti, espropri, infrastrutture stradali e
acquedotti, 6.000 fotografie, 79 pellicole e 1.700 volumi.
L'Estatatura
L’estatatura è un
fenomeno tra i più rilevanti nella storia della Maremma. Iniziò nel
XIV secolo, fu praticato da tutti i governi che guidarono questa terra
e fu riconosciuto legittimo dallo Stato italiano. A regolarlo
ufficialmente fu comunque il governo granducale lorenese nel 1765.
L’estatatura era un’emigrazione che interessava i mesi più caldi
dell’estate, quando nella pianura maremmana imperversava la malaria. A
giugno gli uffici pubblici, gli impiegati con le loro famiglie e gran
parte della popolazione si trasferivano da Grosseto a Scansano, che fu
scelta per il suo clima e per la posizione geografica non troppo
distante dal capoluogo.
Scansano era infatti chiamato “il paese dell’aria buona” e,
grazie a questo fenomeno stagionale, accrebbe la sua importanza e ne
trasse benefici economici. Grosseto invece, durante il periodo
dell’estatatura, rimaneva vuota e disabitata, spesso senza acqua e
assediata dalla malaria, fino ad ottobre, quando gli abitanti
rientravano in città.
Solo nel 1897, dopo alcuni tentativi di bonifica e la costruzione
dell’acquedotto di Grosseto, l’estatatura venne soppressa.
La Malaria
La
malaria per secoli è stata parte integrante della Maremma:
imperversava nella pianura e colpiva la popolazione, dedita
soprattutto alle attività agricole. In passato si credeva che la
malaria si diffondesse attraverso le acque putride e stagnanti e la
sua vera causa fu scoperta solo verso la fine dell’Ottocento, quando
uno zoologo capì che veniva trasmessa all’uomo attraverso la puntura
di una zanzara.
Indubbiamente le condizioni igienico-sanitarie della case e
l’alimentazione povera favorivano la malattia e nel 1862 circa il 40%
della popolazione grossetana era affetta dalla malaria. La campagna
per la cura e la prevenzione della malattia cominciò nel 1925, con
l’impiego del chinino, ma la malaria fu vinta definitivamente solo
grazie alle bonifiche degli anni Cinquanta.
Testimonianza delle sofferenze patite per secoli dalla popolazione
sono le strofe di “Maremma amara”, che narrano le difficoltà e i
problemi di questa terra: oltre che di malaria si moriva di fatica, di
denutrizione, di freddo e di fame.
La Maremma: terra di immigrazioni e
colonizzazioni
La Maremma è sempre
stata una terra di immigrazione: per i lavori stagionali, per la
transumanza, per le opere agricole e per i processi di inurbamento che
si creavano nei periodi di carestia. Immigrazioni importanti, dal
punto di vista numerico, sono quelle relative ai tentativi di
ripopolamento della Maremma promossi dalla Repubblica di Siena, dai
Medici e dai Lorena.
Già a partire dalla metà del Trecento, infatti, le terre maremmane
cominciarono a essere abbandonate a causa della malaria, del clima
malsano e della fame e i governatori di Siena tentarono un
ripopolamento favorendo l’immigrazione dei Còrsi. Sforzi analoghi
furono fatti da Cosimo I: per risolvere il problema dell’abbandono
delle terre, vietò ai residenti in Maremma di emigrare e
contemporaneamente favorì l’afflusso di contadini da Brescia e Modena.
I nuovi coloni furono però decimati in poco tempo, per le pessime
condizioni di vita.
Anche per l’Isola del Giglio, continuamente sottoposta ad attacchi
pirateschi, furono messi in atto due progetti di ripopolamento: il
primo, avviato dopo la razzia del 1544, prevedeva l’arrivo di numerose
famiglie di coltivatori e pastori senesi e interessava l’area di
Giglio Castello. Dopo l’ultimo attacco saraceno nel 1799, il Granduca
Pietro Leopoldo organizzò un piano per rivitalizzare il Porto,
richiamando famiglie liguri e napoletane di provata esperienza
marinara.
Sovana fu invece interessata dalla nascita di una colonia greca nel
Seicento e dall’immigrazione di 1700 cittadini tedeschi durante il
governo dei Lorena. Entrambe le comunità furono praticamente
sterminate dalla malaria e dalla denutrizione.
Falliti quasi tutti i tentativi di ripopolamento, si dovette giungere
al periodo delle bonifiche perché in Maremma ci fosse la prima ripresa
demografica. Gli ultimi due consistenti afflussi si ebbero nel
Novecento: l’immigrazione di numerose famiglie venete negli anni
Trenta e di pastori sardi negli anni Settanta.
La Transumanza
Quando d’autunno le
greggi scendevano dall’Appennino per svernare in Maremma, si sentivano
per giorni il pesticcio delle pecore, i campani, l’abbaiare dei cani.
Era un immenso fiume di lana quello che scendeva verso il mare da due
direzioni principali: l’Appennino tosco-emiliano e quello alle spalle
di Arezzo. Passato l’inverno, goduta la primavera, le greggi
ripartivano nel senso opposto.
Ogni gregge veniva guidato in un itinerario prestabilito dove, nelle
aie di contadini ospitali, si passava la notte in cambio del latte
appena munto. I grandi cani bianchi seguivano il gregge, la famiglia
del pastore e i pochi attrezzi venivano portati su un carro tirato da
un ciuco, in una nuvola di polvere, di mosche, di storia.
I conti Alberti di Prato e Mangona controllavano tutta una serie di
castelli che da Vernio sull’Appennino arrivavano a Monterotondo,
Scarlino e Gavorrano in Maremma: era un’antica via di transumanza
percorsa dalle greggi da tempi immemorabili. Nei testamenti e nelle
divisioni tra i rami dei conti Aldobrandeschi si dà sempre grande
importanza alle greggi dell’Appennino. Nel luglio del 1172 Bernardo
Stratumen, signore di Cinigiano, si era impadronito delle pecore della
Garfagnana di proprietà aldobrandesca, così Ildebrando VII preparò un
grande esercito per riprendersele e chiese aiuto a Pisa. La Repubblica
gli mandò 140 uomini fra cavalieri e arcieri, gente esperta in
macchine da guerra per assediare Cinigiano e costringere Bernardo a
sottomettersi.
Storia Sociale: Cacciatori, Briganti,
Pastori e Contadini
La storia della Maremma
è legata alla lotta per la sopravvivenza, in un territorio duro e
inospitale. Per secoli gli uomini si sono confrontati con le
difficoltà, con la malaria e con la legge del più forte.
Contadini, pastori, cacciatori di frodo, briganti, taglialegna,
carbonai e butteri sono i protagonisti di questa terra, gli abitanti
delle fitte macchie popolate da animali selvatici, delle grotte
nascoste tra la boscaglia e delle vaste distese incolte.
E’ stata proprio questa povera gente a fare la storia e a costruire il
carattere di questa terra, con i suoi costumi e tradizioni e con il
suo particolare patrimonio culturale.
I Carbonai
Il
mestiere del carbonaio era molto faticoso e difficile. I carbonai
provenivano per lo più da Pistoia, Prato e Bologna e si recavano in
luoghi anche lontani (come la Maremma) per svolgere il lavoro che
permetteva loro di sopravvivere. Popolavano la macchia dall’autunno
alla primavera e vivevano con le loro famiglie nelle piote, cioè in
capanne di legno ricoperte da zolle d’erba o di muschio. Dopo il
taglio degli alberi utilizzavano gli spazi lasciati liberi per
allestire le carbonaie. Queste ultime erano formate da cupole di legna
di tre metri di diametro e due di altezza, ricoperte con terra e
foglie secche. L'arte del carbonaio consisteva nel saper condurre il
fuoco, in modo che tutta la legna presente nella carbonaia bruciasse
uniformemente: dal colore del fumo poteva infatti capire dove avveniva
la combustione e, tappando e stappando dei buchi praticati nel
rivestimento, poteva regolare la diffusione della fiamma e il
tiraggio. Il carbonaio doveva soprattutto fare in modo che la
combustione avvenisse in presenza di poca aria, altrimenti, invece di
carbonizzare, la legna sarebbe diventata cenere. La cottura durava tre
o quattro giorni poi interveniva il vetturino, che caricava il carbone
su pesanti carri trainati da muli e lo trasportava nei vari paesi,
dove veniva venduto.
Il Bracconiere
Per fame e miseria
prima, per smodata passione dopo, il bracconiere è l’uomo della notte
che aspetta il cinghiale dove sa lui, lo ammazza, lo sventra sul posto
e se lo porta via.
Le tagliole per gli uccelli erano invece un modo di aiutarsi a vivere
negli inverni lunghissimi prima del turismo e del benessere. La tesa
delle tagliole era privata, nessuno rubava gli uccelli degli altri.
Venivano sistemate in lunghe file nella macchia fitta. Le trappole di
legnetti e sassi (“pietraccola”, “petraccola”, “pitrappola”, “catrappola”)
le mettevano i ragazzi; ci prendevano i pettirossi e i passerotti.
I lacci erano fatti con i crini di cavallo, la pènera era un tipo
particolare di laccio. Tutti praticavano la caccia con le trappole,
anche se illegale; tutti condannavano chi tendeva i fucili carichi per
ammazzare il cinghiale perché si poteva colpire qualcuno, è successo
spesso. Il marchese Eugenio Piccolini, grande cacciatore, nei primi
decenni del ‘900 fu ferito da un fucile teso che gli scaricò nelle
gambe. Si salvò, ma fu un caso.
I Boscaioli
Il
mestiere del boscaiolo era il più comune nell’entroterra della
Maremma. Era un lavoro duro, che richiedeva molta forza e resistenza
fisica e iniziava in autunno. I boscaioli si riunivano in squadre di
tagliatori e lasciavano il paese di notte, in modo da essere nella
zona di lavoro all’alba oppure, se questa era lontana, si trasferivano
nel luogo di lavoro e dormivano nei capanni. Il lavoro, che si
svolgeva dall’alba al tramonto, prevedeva varie fasi: prima si
abbattevano gli alberi, poi se ne mozzavano i rami e la punta e infine
si spaccava il tronco in pezzi lunghi un metro. Questi blocchi
venivano poi accatastati fino ad arrivare alla misura del metro stero
(unità di misura del legname). Dopo il lavoro i boscaioli si
rifocillavano con una cena a base di polenta e pecorino, scambiavano
qualche parola tra loro e fumavano tabacco. Questa vita di duro lavoro
si ripeteva ogni giorno fino a primavera. Le uniche varianti di queste
giornate monotone erano rappresentate dalle visite dall’appaltatore,
che si recava sul luogo del taglio per controllare e appuntare tutto
sul suo taccuino, del mulattiere che caricava la legna e di qualche
cacciatore che si fermava per avere indicazioni sulla strada o per
farsi riempire la borraccia.
I Briganti
Il
fenomeno del Brigantaggio fu uno dei due mali della Maremma… l’altro
fu la malaria. A noi sono ben noti i fatti post ottocenteschi, ma fin
dal periodo della Repubblica di Siena si ha notizia dei briganti in
Maremma. Addirittura pur di ripopolare la Maremma, il Granduca
Ferdinando II di Toscana nel 1593 emise un inquietante documento:
"Vengano pure i delinquenti perchè non saranno molestati da
qualsivoglia tribunale o principe, o inquietati per qualsivoglia
denuncia, querela o accusa, che si fosse formata o si formasse contro
detti immigrati, tanto per delitto o maleficio enorme, grave,
enormissimo o gravissimo, o altro che dai nuovi venuti o da chiunque
della loro famiglia, compresi i servi, fosse stato commesso fuori dal
Granducato di Toscana".
Fonte Alfio Cavoli - Maremma amara
Nella seconda metà dell'ottocento e i primi anni del novecento, la
qualità della vita nella provincia di Grosseto non era certo delle
migliori. I problemi maggiori erano costituiti dal latifondo, dalla
carenza di comunicazioni interne, dalla malaria, dall'analfabetismo,
dal brigantaggio. Buona parte del territorio pianeggiante era
caratterizzata dalla presenza di immense paludi acquitrinose.
L'economia si basava essenzialmente sull'agricoltura. L'industria,
tranne che nel settore estrattivo, si presentava embrionale e debole.
La scarsità di collegamenti, la
lontananza tra paese e paese e la gestione semi - feudale della terra
contribuivano a determinare un pesante stato di degrado, di miseria.
Uno dei flagelli che facevano della Maremma una terra inospitale era
la malaria. I mesi più colpiti dalla malattia erano quelli tra luglio
e ottobre. In estate quasi tutti gli abitanti delle basse località
erano costretti a emigrare lasciando in balia della ventura tutte le
loro sostanze e i loro averi. Chi ne aveva la possibilità si
trasferiva nei paesi di montagna per sfuggire alle febbri malariche.
Era il singolare fenomeno della "estatura": per espressa disposizione
di legge (dei Lorena prima e del Regno d'Italia dopo), tutti gli
uffici pubblici venivano trasferiti nelle località di collina. Le
persone che correvano maggiori rischi di infezione erano quelle
appartenenti ai ceti più deboli: il morbo colpiva perché trovava
terreno fertile in alcune cause indirette, come il lavoro a cottimo
faticosissimo, lo scarso nutrimento, i cattivi alloggi, ecc. In quel
periodo la vita media nella provincia di Grosseto si aggirava intorno
ai 23 anni.
Anche se le campagne
antimalariche e le prime bonifiche avevano contribuito a migliorare la
situazione, la diffusione del morbo agli inizi del 1900 era ancora
notevole.
Malgrado tutto il bisogno di nutrirsi e nutrire la famiglia spingeva
molti lavoratori stagionali nelle campagne maremmane, disposti a
correre il rischio della malaria e della morte. Questi uomini vivevano
in condizioni precarie: si nutrivano poco e male, vivevano in grotte o
capanne e la loro sorte era legata agli "umori" del caporale che li
aveva reclutati.
Venire licenziati significava vagare sbandati per la zona, morire di
fame o commettere furti e delitti.
Nella seconda metà del diciannovesimo secolo, il brigantaggio era una
delle piaghe più evidenti della provincia di Grosseto, anche se non
raggiungeva proporzioni vaste come nell'Italia meridionale.
In Toscana i briganti erano dei solitari: ebbero degli allievi,
imposero il loro stile, ma non ebbero mai l'ambizione di comandare
piccoli eserciti. Era più che altro un modo di vivere, un mestiere
senza giustificazioni di carattere politico.
Il primo brigante che lasciò un segno del suo
passaggio fu
Enrico Stoppa che imperversò nell'orbetellano
dal 1853 al 1863.
Gli altri nuclei più importanti erano quelli di
Domenico
Tiburzi e quello di
Ausini, Albertini, Fioravanti,
Ranucci,
Settimio e Domenico Menichetti.
La
vita troppo dura, lo sfruttamento dei "reietti", le ampie zone di
confine (tra Granducato e Stato della Chiesa) ricche di macchie e
paludi fecero si che il Brigantaggio in Maremma (sia Toscana che
Laziale) sia quasi arrivato fino ai giorni nostri.
Ecco
quindi un elenco con alcune brevi biografie di alcuni tra i più feroci
Briganti di Maremma:
Domenico Tiburzi ucciso dai Carabinieri alle Forane-Capalbio il 24
ottobre 1896
Luciano Fioravanti ucciso da Gaspare Mancini al pod. Lascone il 24
giugno 1900
Enrico Stoppa muore in carcere il 16 agosto 1863 per inedia
Domenico Biagini ucciso
dai Carabinieri a Gricciano sul Fiora il 6 agosto 1889
David Biscarini ucciso
dai Carabinieri di Canino e Farnese il 12 dicembre 1877
Fortunato Ansuini
scappato a San Magno il 3 giugno 1891 e scomparso nel nulla
Damiano Menichetti
arrestato a San Magno il 3 giugno 1891. Muore in carcere
Settimio Albertini
morto al Crocino di Montorgiali il 30 ottobre 1897
Settimio Menichetti
morto al Crocino di Montorgiali il 30 ottobre 1897
Antonio Ranucci morto
al Crocino di Montorgiali il 30 ottobre 1897
Angelo Scalabrini
uccico nel 1867 da Don Vincenzo Danti (questioni di donne)
Giuseppe Basili detto
"Basiletto" ucciso da Tiburzi nel 1878
Vincenzo Pastorini
detto "Cenciarello" ucciso da Tiburzi nel 1878
Luigi Demetrio
Bettinelli detto il "Gigione" ucciso da Fioravanti il 13 giugno 1889
Ricordiamo però anche il valore dei Carabinieri morti nella caccia ai
Briganti……
Domenico Tiburzi
(storia
e leggenda)
Domenico
Tiburzi nacque a Cellere il 28 maggio 1836 da Nicola e Lucia Attili.
Piuttosto basso di statura (160 cm), di qui il soprannome di
Domenichino, ma definito come attraente con capelli folti e neri ed
occhi castani.
Pastore e buttero (e cosa altro poteva fare?) a 23 anni sposò Veronica
Dell’Aia, una sedicenne molto carina che gli dette due figli di cui
ignoriamo la sorte.
Piccoli precedenti a parte la storia criminale di Domenico Tiburzi ha
inizio nel 1867 quando il 24 ottobre uccise Angelo Del Bono, guardiano
del marchese Guglielmi, reo di averlo multato di ben 20 lire perché
sorpreso a raccogliere le spighe di grano a terra nel campo del
marchese, cosa per altro possibile per le leggi del Granducato, ma
vietata da quelle del Regno Italiano.
Il reato era ridicolo ... e la multa uno sproposito ... tanto valeva
uccidere il povero Angelo Del Bono.
Dopo l'omicidio si diede ovviamente alla macchia fino al 1869 quando
fu arrestato e condannato dal Tribunale di Civitavecchia a 18 anni di
carcere da scontarsi nel bagno penale di Corneto, presso Tarquinia.
Nel 1872 rocambolescamente evase da Cornero insieme a Domenico Annesi
detto l'"Innamorato" e Antonio Nati detto il "Tortorella".
La
sua fedina penale si sporcò molto presto: A sedici anni fu incluso in
un elenco di ricercati per furto; a diciannove subì un processo per lo
stesso reato, ma venne assolto; a
ventisette venne arrestato per aggressione e
ferimento, poi rimesso in
libertà
per "desistenza della parte offesa".
Nel
1867
uccise il guardiano del marchese Guglielmi,
Angelo Del Bono,
reo di avergli affibbiato una multa di 20 lire, uno sproposito per
quei tempi (basti pensare che è come se oggi per un paio di calze
rubate in un supermercato si facessero pagare a un poveraccio oltre
20.000 euro) e tutto perché era andato a raccogliere un fascio d'erba
nel campo del marchese. Dopo aver passato la notte insonne la mattina
seguente prese la fatale decisione per il povero ma severo guardiano.
Ciò scaturì dal fatto che prima dell'Unità
d'Italia furono cambiate certe
leggi che permettevano la sopravvivenza ai contadini più poveri
raccogliendo le spighe cadute dopo la
mietitura.
Dopo il misfatto si diede alla macchia, vero regno del
brigantaggio
di quei tempi, e così con la latitanza inizia la sua storia da
bandito.
Nel
1869
fu arrestato e condannato dal Tribunale di
Civitavecchia
a 18 anni di galera da scontarsi nel bagno penale di
Corneto,
cioè
Tarquinia.
Tre anni dopo evase insieme a
Domenico Annesi
(detto "l'Innamorato") e
Antonio Nati
(detto "Tortorella"). Si rifugiò nelle macchie della zona castrense
dove si unì ad altri latitanti.
L'entrata in pianta
stabile nel brigantaggio
Tiburzi, come tutti gli animali braccati, tornò
verso le macchie tra il Lago di Bolsena, Montalto di Castro e Capalbio
che conosceva benissimo e qui rimase in latitanza per quasi trentanni.
Nelle macchie del Farnese incontrò Domenico Biagini di Farnese detto
il "curato" perchè molto credente, con il quale Tiburzi strinse un
duraturo patto di alleanza. Si unirono a loro
David Biscarini
che divenne il capo della banda e
Vincenzo Pastorini,
tutto mentre sulla testa del Tiburzi pendeva una taglia di diecimila
lire. In
questi anni la fedina penale di Tiburzi si arricchisce con le
estorsioni ai danni di David Bonpadre e dei fratelli Balestra, con il
sequestro di Luigi Bartolini, il ferimento dell'amante Nazarena
Caporali e l'omicidio di Domenico Cesaroli.
Il 12 dicembre 1877 David Biscarini fu ucciso dai Carabinieri di
Canino e Farnese presso la grotta del Paternale, sia il Biagini, che
venne leggermente ferito, che il Pastorini, che il Tiburzi, in
mutande, riescono a scappare.
Da questo momento il comando della banda passò nelle mani di
"Domenichino".
Nel 1878 Giuseppe Basili detto "Basiletto" si aggregò alla banda del
"Domenichino" composta, oltre da Tiburzi, dal Biagini e dal Pastorini.
La storia ci dice che a marzo del 1879 la banda era unita ... ma per
poco perché prima il Basili e poi il Pastorini furono uccisi da
Tiburzi.
Il Basili pagò a Cerreta Piana la sua eccessiva violenza verso i
mercanti e le sue bravate ai danni dei contadini.
Il Pastorini pagò perché lo metteva sempre in ridicolo raccontando a
troppo spesso della sua fuga in mutande dalla grotta del Paternale e
per questo fu ucciso in un duello su un aia a Santa Barbara, fulminato
dalla doppietta di Tiburzi.
Era iniziato il regno del "Livellatore" Domenico Tiburzi...
una
delle attività, preferite del Tiburzi erano le estorsioni ed, a farne
le spese, fu Don Antonio Lucchetti a cui venne incendiato il fienile.
Ormai sia su Tiburzi e sia sul Biagini la taglia e gli anni di carcere
da scontare erano notevoli.
Nel marzo del
1883
nelle vicinanze di Farnese, goloso dell'ammontare della taglia,
Antonio Vestri,
boscaiolo, condusse i carabinieri presso il rifugio dei briganti, che
riuscirono a fuggire. Dopo qualche tempo il boscaiolo era cadavere.
Biagini gli sparò addosso una schioppettata e Tiburzi, per aggiunta,
lo sgozzò; al che Biagini, per non essere da meno, sventrò col suo
pugnale i due muli con i quali il Vestri trasportava la legna appena
raccolta nel Lamone.
Furono gli stessi
Tiburzi e Biagini a spiegare agli esterrefatti Cencetti e Cailli il
perchè del gesto:
"Andate a Farnese e
dite che gli autori del misfatto siamo stati noi. Ora Farense ha uno
sfaciamagazzini di meno. Abbiamo ucciso i somari perchè ne eravamo i
padroni, avendoli ceduti al Vestri in pegno per il suo manutengolismo
per dieci anni".
Fonte Alfio Cavoli - Maremma amara
Per
l'uccisione del Vestri sia Tiburzi che Biagini furono condannati a
morte con sentenza del 12 dicembre 1993 della Corte di Assise di
Viterbo.
Nel
loro vivere alla macchia Tiburzi e Biagini incontrarono due altri
briganti: Luigi Demetrio Bettinelli detto il "Gigione" o il
"Principino" di Porretta Terme e Luciano Fioravanti di Bagnoregio.
Biagini era lo zio di Fioravanti e per un poco formano un bel
quartetto di tagliagola fino a che Tiburzi e Biagini decidono che gli
atteggiamenti e la voglia di primeggiare del Bettinelli non era più
gradita.
Inoltre il "Gigione" molestava le donne e questo era un reato
gravissimo nel regno del Livellatore.
Nel
1888,
Tiburzi uccise
Raffaele Pecorelli,
colpevole di aver rubato un maiale al nipote Nicola.
Il 13 giugno avvenne
l'iniziazione al delitto (affinché fosse degno di entrare nelle grazie
del "Livellatore") di Luciano Fioravanti (nipote del Biagini) con
l'uccisione, sotto ordine di Tiburzi e Biagini, del (detto "il
Principino"), sgradito a Domenichino, perché era violento con le
donne. A onor del vero successivamente Tiburzi e Biagini scagionarono
dal delitto il Fioravanti ma la storia ci dice che a Montauto fu la
doppietta del Fioravanti ad uccidere il Bettinelli.
Inoltre tra i suoi omicidi i più numerosi sono
contro gregari che non stavano alle regole, o contro spie, o contro
chi commetteva rapine in suo nome offuscandone l'immagine (tipo un
certo capraio di
Terracina
perché rapinava a nome suo).
Da "bravo" brigante era diventato un
Robin Hood
dei tempi nostri, aveva istituito una tassa sul
brigantaggio
cui dovevano corrispondere i nobili ed i ricchi possidenti terrieri
che tenevano in pugno l'economia agricola della zona; per gli
insolventi la punizione era l'incendio, tipico mezzo di reazione
antipadronale dei braccianti maremmani.
Del
denaro ricavato il Tiburzi ne donava una parte ai familiari dei
meritevoli briganti uccisi e con un'altra pagava il sostentamento per
i più poveri e per i contadini e gli artigiani che non riuscivano a
sbarcare il lunario. D'altronde aveva uno spirito umanitario, anche se
un po' particolare.
Il compare Biagini cadde sotto i colpi dei
carabinieri, in un agguato nella macchia di Gricciano, sul Fiora. Era
il 6 agosto
1889:
il vecchio bandito aveva ormai 67 anni e da venti viveva alla macchia.
Ma Domenichino non si scoraggiò e nel 1889
In
questo caso la storia non è univoca in quanto Adolfo Rossi nel suo
libro "Nel regno di Tiburzi" indica come causa di morte del Biagini un
più banale infarto causato dalla vista dei Carabinieri.
Il suo ultimo omicidio fu quello di
Raffaele Gabrielli,
fattore del marchese Guglielmi, il 22 giugno 1890 nelle campagne di
Montalto di Castro
perché non aveva avvertito i briganti che ci sarebbe stata una
perlustrazione dei carabinieri, nella quale poi rimase ucciso lo
stesso Biagini. Il Tiburzi ed il Fioravanti uscirono dalla macchia e
chiamarono ad alta voce il fattore che stava facendo colazione insieme
ai mietitori e ai suoi collaboratori. Portato a pochi metri di
distanza il Tiburzi gli sparò alla testa sotto lo sguardo atterrito
dei mietitori.
Il Tiburzi ed il
Fioravanti (che ricordiamo era il nipote del Biagini) uscirono dalla
macchia e chiamarono ad alta voce il fattore che stava facendo
colazione insieme ai mietitori.
"Fermati, disse una
volta ad un fattore che aveva fatto ammazzare dai Carabinieri il suo
amico Biagini. Chi non ha da fare vada a farsi una bevuta d'acqua
fresca perché, oggi a Pian di Maggio c'è il fuoco. Le scarpe del
Biagini erano scarpe da poveraccio con tante bollette, tante come le
stelle, fattore, adesso le scarpe sono nella fossa con lui, le
bollette sono tutte dentro il mio trombone, ma sulla tua faccia
diventeranno stelle." e gli sparò alla testa uccidendolo.
Fonte Luigi Poverini - L'estate secca
Nel
1893
il Governo, presieduto da
Giovanni Giolitti,
ordinò alle autorità di intervenire energicamente per la cattura di
tutti i briganti. In una retata ne furono presi oltre 150, processati
poi a
Viterbo,
ma Tiburzi sfuggì continuando a fare il brigante.
In breve tempo furono effettuati molti arresti
che coinvolgevano persone di ogni ceto sociale: nobili, contadini,
pastori, tutti accusati di associazione a delinquere per aver
sottratto i latitanti alle perlustrazioni dei carabinieri e quindi
contribuito a creare quell’invulnerabile muro di
omertà
che avvolgeva e proteggeva i briganti della
Maremma.
Ma i più erano contadini e pastori, alle cui famiglie venne a mancare,
con il loro arresto, l'unico mezzo di sostentamento.
Giolitti stesso si indignò per la situazione
venutasi a creare in
Maremma.
L'azione delle forze dell'ordine portò il brigantaggio maremmano, e
Tiburzi in particolare, agli onori della popolarità nazionale e da
quel momento la caccia al bandito divenne serrata e spietata.
L'Uccisione
Nel
1896,
presso
Capalbio,
fu ucciso dopo 24 anni di latitanza dai militari del capitano
Michele Giacheri,
ufficiale dotato di grande esperienza nel settore. Non a caso il regno
di Tiburzi durò molto a lungo, grazie proprio agli equilibri che era
riuscito a stabilire con i potentati locali, evitando accuratamente di
scontrarsi con i carabinieri ("figli di mamma" come li chiamava lui) e
tutelando gli interessi di determinati possidenti, a cui garantiva
protezione non solo dagli altri briganti, ma anche da ogni altro
genere di problemi, dietro un regolare compenso, come fosse una paga,
un premio assicurativo o una tassa sulla salute.
La
fine del regno di Domenico Tiburzi la si deve alla costanza del
Capitano dei Carabinieri Michele Giacheri.
Il Capitano Michele Giacheri era giovane e famoso al suo arrivo in
Maremma in quanto a Lui si devono le catture del Brigante Francesco
Simeone e del Brigante Gaeta in Calabria e l'annientamento della banda
della "Compagnia della teppa" in Lombardia.
Sotto la copertura di eseguire rilievi di topografia, insieme al
tenente Silvio Rizzoli, il Giacheri si intrufolò nei territori
preferiti dal Tiburzi e cominciò a percorrere instancabilmente in
lungo e in largo il regno del brigante studiandone gli avvistamenti e
gli spostamenti quasi marcando e circoscrivendo l'area di azione.
Accadde tutto in una piovosa notte d'autunno,
tra il 23 ed il 24 di ottobre, tre militi, il brigadiere
Demetrio Giudici
e i carabinieri
Raffaele
Collecchia ed
Eugenio
Pasquinucci, per un puro caso,cioè
per non aver trovato alla casa del Cunicchio del pane per
rifocillarsi,proseguirono verso Capalbio e passando in località "le
Forane" videro il lume acceso nella casa del colono Franci, dove
abitavano assieme al padre anche le due belle figlie con le quali il
Tiburzi e il Fioravanti pareva se l'ha intendessero . I due fuorilegge
avevano trascorso la serata cenando con le migliori provviste assieme
ai familiari del colono,e soprattutto "Domenichino" aveva ecceduto con
le libagioni, infatti sulla tavola, insieme ai racconti del brigante,
dispensati ai commensali come un vero e osannato patriarca, si
allinearono molti fiaschi di vigoroso vino maremmano. Improvvisamente,
all'avvicinarsi dei gendarmi, i cani iniziarono ad abbaiare
furiosamente, e al "Chi va là" del Tiburzi parte lo scontro a fuoco: i
due briganti potevano brandire ottimi fucili a retrocarica, fucili a
canne mozze, pugnali e varie rivoltelle. Appena spalancata la porta il
primo che uscì allo scoperto per fuggire fu il Fioravanti che esplose
un paio di fucilate nell'ombra, per coprirsi la fuga nelle tenebre con
l'effetto sorpresa. Il Tiburzi invece, più anziano e lento, non riuscì
a scappare come il Fioravanti, ma questo non gli impedì di lasciare
andare anch'esso due fucilate verso quella che credette la figura di
un gendarme: l'infallibile mira del Re del Lamone, annebbiata dal vino
e dagli anni purtroppo questa volta colpì, come ultimo bersaglio di
una storia leggendaria, un orcio di terracotta, che andò si in
frantumi, ma espose al contempo il brigante ad una più rapida
individuazione dei carabinieri, i quali risposero al fuoco,
crivellandolo di colpi alle gambe e al torace e lasciandolo ucciso
all'istante. Domenico Tiburzi cadde, ma lo fece impugnando il suo
scettro di indiscusso Re della Macchia: con il fucile tra le mani. Il
Fioravanti riuscì invece a fuggire con un formidabile balzo,
immacchiandosi nelle tenebre impenetrabili della campagna maremmana di
fine ottocento,come fosse stato un cinghiale braccato dalla canizza,e
scomparve in un battibaleno, sottraendosi agli spari furiosi dei
gendarmi e prima che qualcuno potesse solo tentare o anche pensare di
acciuffarlo.
Quindi il luogotenente di Domenichino,
Luciano Fioravanti,
più giovane di oltre venti anni, riuscì a fuggire. Alla fine fu ucciso
nel
1900
per mano di un amico traditore,
Gaspero Mancini,
che per derubarlo e assicurarsi la taglia posta sulla sua testa, lo
freddò con un colpo a bruciapelo mentre dormiva.
Il
folclore invece ci dice che sotto una pioggia torrenziale, molti
coloni vennero svegliati e molti poderi perquisiti a fondo alla
ricerca dei due briganti, fino a che, verso le 3:30 del mattino presso
il podere di Marco Collacchioni sito sul poggio delle Forane ed
abitato dalla famiglia di Nazzareno Franci finisce la latitanza del
Tiburzi.
Al "chi va la" dei Carabinieri (o del Tiburzi stesso) parte lo scontro
a fuoco.
Tiburzi e Fioravanti erano armati di fucile a retrocarica e fucile a
canne mozze, almeno una pistola a testa, oltre agli inseparabili
coltelli.
I Carabinieri spararono sulle finestre e sulla porta crivellandola di
colpi quando il Tiburzi uscì allo scoperto sparando e colpendo in
pieno petto il Brigadiere Giudici troppo esposto e ferendo gravemente
altri due militari.
Tiburzi fu colpito alla gamba sinistra dal Carabiniere Collechia e, ormai caduto a terra, fece l'ultimo gesto di estrarre la
pistola finendo crivellato dal fuoco degli altri militi.
Con un gesto di pietà tipico dell'epoca gli fu inferto il colpo di
grazia alla nuca.
Esiste
anche una versione alternativa della morte di Domenico Tiburzi:
"pur di non cadere
prigioniero di uno Stato da sempre avvertito come nemico, quando si
vide spacciato, Tiburzi preferì uccidersi da solo.
Estrasse la pistola dalla fondina, se la puntò alla testa
e premette il grilletto accasciandosi sul prato, mentre tanti colpi
gli spaccavano le gambe."
Fonte intervista di
Alfio Cavoli
Anche se non l'ho
trovato scritto in nessuno dei testi che ho consultato, ho la certezza
che Domenico Tiburzi, vecchio e mangiato dalla malaria, si sia
sacrificato per permettere a Luciano Fioravanti "figlioccio" di venti
anni più giovane di fuggire.
Il sacrificio finale del vecchio Re.
Forse la stessa storia era accaduta nel lontano 12 dicembre 1877
quando morì David Biscarini e si salvò il Tiburzi.
La latitanza del Tiburzi era finita dopo 24 anni ... il re del Lamone
era morto.
La fine di Luciano
Fioravanti avvenne il 24 giugno del 1900.
Fioravanti non aveva le doti "politiche" di Tiburzi ed in pochi anni
si era fatto tanti nemici (anche per certe storie di donne) e inoltre
sulla sua testa era stata messa dal Governo Italiano una forte taglia
di ben 4'000 Lire.
Ecco che viene organizzata la classica congiura: Fioravanti viene
invitato a pranzo al podere Mascone, sono presenti Gaspare Mancini di
Pitigliano insieme a Elia Bechini, Giovanni Ceccherini e Federigo
Giannischi, si mangia e si beve tanto vino (ci sembra di rivivere la
strage di briganti del Crocino di Montorgiale del 30 ottobre 1897).
Alla fine del pranzo Fioravanti è un po' alticcio ed ha sonno per cui
si apparta nel bosco per concedersi una pennichella è a quel punto che
Gaspare Mancini si avvicina, gli prende il fucile e glielo scarica in
testa da dietro.
Tornando a Tiburzi
sembra che l'unica fotografia che si trovi del brigante Domenico
Tiburzi sia stata fatta dopo la sua morte, con il corpo legato al
tronco di un albero per tenerlo in piedi e gli stecchini agli occhi
per dare l'illusione che fosse ancora vivo.
I funerali voluti dalla gente di Capalbio
Alla morte di Domenichino il suo regno rimase
tutto a disposizione della banda ancora per qualche anno per poi
disgregarsi ineluttabilmente. I tre che la componevano,
Settimio
Menichetti,
Settimio Albertini
e
Antonio Ranucci,
erano troppo malvagi per poter aspirare all'amicizia del
"Livellatore".
Di
Tiburzi si conoscono i delitti, quelli che risultano negli archivi. Ma
nessun archivio riporta, di un brigante, le manifestazioni positive;
altrimenti non si spiegherebbe l'ammirazione da parte di tanta gente
del popolo. Infatti il prete voleva negare al brigante il funerale e
la sepoltura in terra consacrata ma la ostinata popolazione di
Capalbio, sdegnata da tale decisione, lottò perché il paladino dei
diritti dei più deboli avesse un’onorata sepoltura in terreno
consacrato. Si arrivò così ad un compromesso: "mezzo dentro e mezzo
fuori dal cimitero". Quindi si scavò la fossa proprio dove si apriva
il cancello d'ingresso originario e gli arti inferiori restarono
dentro - come vuole la tradizione - mentre la testa, il torace (e
dunque l'anima) rimasero fuori.
Con
gli anni, e l'allargamento del cimitero, la lapide che ricorda la
tomba di Tiburzi è finita con essere in una zona quasi centrale del
cimitero stesso
La fine del Brigantaggio in Maremma
Da notare è che i carabinieri furono premiati
con una medaglia d'argento con tanto di cerimonia di stato e foto in
posa, ma il professionale Giacheri non si lasciò lusingare e si
concentrò sulla debellazione della
Maremma
fino all'ultimo brigante.
Il
brigantaggio
fu debellato alla fine del diciannovesimo secolo. Pochi briganti
finirono ammanettati: preferirono cadere sotto il piombo dei
carabinieri piuttosto che arrendersi e finire agli arresti.
L'onorevole Massari definì il fenomeno del brigantaggio come "la
protesta selvaggia e brutale della miseria contro le antiche e
secolari ingiustizie", legato all'esistenza delle grandi tenute
maremmane e delle tensioni sociali.
Non a caso i più gravi episodi di violenza si
verificavano ai danni di guardiani, guardiacaccia, fattori,
carabinieri e altri rappresentanti del potere padronale e dello
Stato.
Antonio Ranucci Settimio Albertini Settimio Menichetti
Damiano
Menichetti
Fortunato Ausini
Folklore - Maremma Amara
Come la cultura dotta di
Dante, anche la
cultura popolare, attraverso la
canzone popolare,
ha fatto un ritratto - ben diverso - della Maremma della
malaria, del
lavoro stagionale malpagato, degli stenti e delle sofferenze che
caratterizzavano la vita in queste terre fino a non moltissimo tempo
fa.
Ecco così le strofe di «Maremma amara», cantata lentamente, così come
tutto era lento in Maremma: lenta o ferma l'acqua, con le sue
zanzare
anofele, il progresso sociale, la lotta contro il
brigantaggio,
quella contro l'analfabetismo.
|
« Tutti
mi dicon Maremma, Maremma...
Ma a me mi pare una Maremma amara
L'uccello che ci va perde la penna
Io c'ho perduto una persona cara.
Chi va in Maremma e lassa
l'acqua bona
Perde la dama e mai più la ritrova,
Chi va in Maremma e lassa la montagna
Perde la dama ed altro non guadagna.
Sia maledetta Maremma Maremma
sia maledetta Maremma e chi l'ama.
Sempre mi piange il cor quando ci vai
Perché ho timore che non torni
mai » |
|
(Maremma amara, Canzone popolare
toscana)
|
Si
rivela in queste semplici e disperate strofe l’immagine storica di
questa terra: un groviglio di speranza e di mestizia, di temerarietà
nella ricerca di una nuova terra e la sgomento per un destino forse
avverso.
La canzone popolare si può far risalire alla
prime metà dell’Ottocento
quando, iniziata l’opera di bonifica voluta dal
Granduca Leopoldo II
dei Lorena, molto terreno si doveva liberare dalla morsa della palude
e dalla malaria rendendolo accessibile alla produzione agricola. Si
stava compiendo il passaggio dalla pastorizia all’agricoltura.
|